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Ricordi del decennio passato e Pokémon: sostanzialmente una trascrizione di quello che è stata la mia vita nel decennio precedente.
Il Paddone: sopravvivere agli anni '10 con una console sbagliata
Mentre il mondo mi offriva solo voucher e false promesse, la WiiU – lenta, goffa e sottovalutata – diventava il mio rifugio più sincero.
Da quando è uscita Nintendo Switch 2, non faccio altro che restare a bocca aperta. Non penso che la casa di Kyoto vada premiata, viste le sue discutibilissime politiche in Nord America e la sua denuncia facile verso chi ha meno forza di lei, ma va dato a Cesare ciò che è di Cesare: Switch 2 è maledettamente veloce a caricare giochi, è un fulmine. Carica i giochi della prima Switch in un lampo, migliora pure il frame rate. Una roba da restare lì a guardarla come se fosse magia.
Eppure, quello che mi ha fatto più effetto non è stato il salto tecnico. È stato vedere gente iniziare a paragonarla alla WiiU dopo che la console è uscita sul mercato. Cosa? Ma davvero? Paragonare una console che vende come l’acqua nel deserto a una che al massimo è ricordata dai Nintendari nostalgici delle musichette nei menù?
No, ragazzi, no. WiiU è un’altra cosa. Un’altra vita. E per me, è stata tanto. È stata tantissimo.
Quando è uscita, mi ero appena diplomato. Il mondo mi sembrava enorme, e io piccolo.
Terni mi aspettava con un lavoro pagato 300 euro in voucher.
Praticamente una manciata di noccioline e uno sputo in faccia. Giusto giusto per mettere la benzina alla mia gloriosa Punto del ’96 e fargli fare altri due giri prima di piantarsi.
Ma nonostante questo, quando annunciarono Rayman Legends in esclusiva su WiiU, impazzii. Amavo i platform multiplayer, e quell’annuncio mi suonava come una promessa. Così, feci l’investimento della disperazione: comprai la console. Ovviamente, poco dopo Rayman uscì ovunque, anche su tostapane, ma pazienza.
WiiU me la sono goduta lo stesso. Perché non era solo una console. Era la mia scialuppa di salvataggio nel mare agitato dell’economia nel secondo decennio degli anni 2000.
Il lavoro andava a rotoli, i contratti erano sempre più umilianti. Tre mesi a voucher, seguiti da altri tre mesi a voucher, che a un certo punto dissi: sapete che c’è? Anche no. Iniziai a fare il dog sitter. Portavo a spasso tre cani insieme, con dei Golden che sarebbero potuti essere Amaterasu di Okami, che dipingevano sul terreno grazie alle loro feci. Il mio compito però non era quello di punire i malvagi sanpietrini roventi, quanto più quello di ripulirlo dalle cacate canine.
Idee di gameplay interessanti a parte, comunque, guadagnavo più in quelle due orette al giorno che in otto ore d’ufficio.
Nel frattempo, del lavoro non c’era ombra e quei contratti che arrivavano erano uno più assurdo dell’altro. L’apice? Un’azienda che mi prese in nero senza retribuzione se non il rimborso del treno per tre mesi, poi altri sei mesi a 300 euro, pagati dalla Regione Umbria con il programma “Garanzia Giovani”. Che nome dolce, vero? Peccato che garantisse solo lo sfruttamento.
Mi spostavo in treno per risparmiare, ma ogni tanto prendevo l’auto. Una di quelle rare volte coincideva con l’uscita di Mario Kart 8. Ricordo ancora la corsa per tornare a casa e fiondarmi a giocarlo con Debora.
Quei momenti, sul nostro proiettore, erano pura magia: Smash Bros. U, New Super Mario Bros. U, le risate, la pizza, il joystick che cadeva a terra. Gioia autentica. La WiiU ci faceva compagnia, lenta com’era nel sistema operativo, ma calda come una coperta logora che non vuoi mai buttare via.
Poi arrivò il colpo basso.
Il CEO di quell’azienda dove mi spaccavo la schiena mi disse che “non ci mettevo cuore”. Ah. Il cuore. Quello che dovevo mettere per un rimborso spese da fame, senza formazione, senza contratto decente, senza che nemmeno avessi in tasca due soldi per la merenda. Facevo più di un’ora e mezza di viaggio con scalo, dal lunedì al venerdì. Ma no, il problema ero io.
E lì qualcosa si è rotto.
Io volevo scrivere codice. Volevo diventare bravo nel backend, fare magari videogiochi un giorno. Ma dopo quell’umiliazione, ho iniziato a pensare di essere io il problema. Che magari davvero non ci mettevo cuore. Che forse non valevo niente.
La verità è che stavo affondando. Ma avevo una zattera: la WiiU. E un gioco in particolare: Xenoblade Chronicles X. Un mondo alieno che si estendeva anche in verticale, un piccolo miracolo tecnico per WiiU: Mira è sconfintata. Ci passavo ore, esplorando canyon e foreste, guidando gli Skell e perdendomi nei dettagli. Avevo anche la guida di Prima Books, che oggi tengo ancora come fosse un libro sacro. Ogni sidequest, ogni area scoperta, era una vittoria. Un respiro.
Certe volte i videogiochi fanno questo: diventano la pelle dei tuoi ricordi. Ti si attaccano addosso, e quando li riprendi in mano dopo anni, ti restituiscono tutto: paure, dolori, ma anche il coraggio che avevi sepolto.
Ne sono uscito. Non grazie ai contratti. Non grazie allo Stato. Ma grazie a quattro cose.
La prima è l’unica costante nella mia vita che non menziono mai in questo genere di testi, ma che forse meriterebbe sempre un piccolo paragrafo a sé: Debora, la mia compagna di vita che ogni giorno mi ha sostenuto cauterizzando ogni sferzata di frusta che la vita mi infliggeva.
La secoda è Roy, il cane che ho accudito. Lo amavo come un fratello peloso. Educarlo, vederlo crescere affettuoso con tutti, mi ha fatto pensare che se avessi avuto i soldi per studiare da educatore cinofilo, forse quella sarebbe potuta essere la mia strada. Ma anche lì: i corsi costavano troppo. E io, come sempre, dovevo far quadrare i conti con due spicci.
La terza è stato il mio primo viaggio in Giappone, nel 2017. Con i risparmi da dog sitter mi ci sono portato da solo. Lì ho scoperto quanto mi piacesse raccontare, scrivere. Lo facevo già per un sito, C4 Comics, ma in Giappone scrivevo anche solo per me. Per i miei amici. Per chi voleva sentire un po’ di quel sogno che finalmente stavo vivendo.
La quarta? Beh. Ironia della sorte, mi ha cercato proprio quell’azienda del “non ci metti cuore”. Si erano trasferiti… sotto casa mia. Assurdo. Ci sono tornato, sapendo che sarebbe stata l’ennesima fregatura, ma con uno scopo diverso: dimostrare a me stesso che il cuore non me l’avevano portato via. Che c’era ancora. E che se ne stava lì, incazzato ma vivo.
Comunque, di lì a poco sarei dovuto andare in Giappone, dunque in ogni caso ero felice, ben conscio che dopo un paio di mesi avrei staccato per 17 giorni per volare quasi dall’altra parte del mondo. Questa volta il mio compito era di aiutare nello sviluppo e affiancare una persona per lo sviluppo di un’applicazione in Basic per un cliente importante.
Dopo un mesetto dal secondo viaggio in Giappone che ho fatto nel 2019, mi proposero di restare, stavolta a… masterizzare DVD. No, davvero. Masterizzare DVD. Non sapevo nemmeno il perché avrei dovuto masterizzare dei DVD nel 2019, ma volevano che lo facessi. Questa volta fui io a sorridere e andarmene: era una skill che avevo già acquisto con anni di milizia su Emule alle spalle.
Non ero più il ragazzo spaventato del 2014. Avevo capito il gioco. E finalmente, avevo cominciato a giocare alle mie regole.
Di lì a poco Ho aperto un canale Twitch. Ho iniziato a creare. A parlare. A costruire qualcosa di mio. E ho capito che non ero io a valere poco. Era la società che voleva lo pensassi.
E in quel millisecondo in cui Switch 2 ha caricato il mondo di Mira per l’ennesima volta, ho sorriso. Tutti gli anni “10” mi sono tornati vividi come non avrei mai pensato e ho realizzato che in quel periodo in cui tutti mi voltavano le spalle, c’era una console storta, lenta, fallimentare… Che invece, con me, aveva fatto qualcosa di straordinario.
Mi aveva tenuto a galla.
Avrei voluto parlare di Xenoblade Chronicles X: Definitive Edition la prossima settimana ma non ci sono riuscito, sono stato investito da un turbinio di emozioni e di ricordi dimeticandomi di dirvi che oh, il gioco su Switch 2 gira bene, gli effetti di luce sono belli, ma le nuove facce non mi piacciono molto perché il fatto che sembrassero bambole su WiiU aveva un senso. Qui non lo so, ma tanto tocca giocare anche il capitolo nuovo alla fine, che forse vedrò entro fine 2026.
Blast from the Pacione’s Past: Pacione no kimiyo na boken -Odissea
È un post di Facebook che ho scritto nel 2017 e pubblicato in un gruppo di amici, niente di che, ma visto che torno in Giappone e sto scrivendo già della roba da integrare per creare qualche racconto mentre sono lì mi sono domandato: chissà se a qualcuno può interessare.
Oh, sia chiaro: non vi aspettate una scrittura pessima come questa, su per giù sarà ai livelli di quello che leggete tutte le settimane: gli 8 anni in più sul groppone si sentono tutti, anche sotto questo punto di vista. Comunque, qui ho deciso di copiare la giornata che più “stilisticamente” si avvicina alle tematiche del Substack: non c’è stata alcuna correzione di sorta se non qualche “d eufonica” di troppo e che mi urta parecchio.
Nota bene: i toni sono molto esagerati, ma perché mi divertivo a scrivere con un determinato tono. Non avrei mai picchiato nessuno, nemmeno per la prima Switch.
Ed eccomi qua, sopra il mio trono di porcellana trionfalmente gaudente dopo una lunga giornata.
Mettetevi comodi e prendete qualcosa da mangiare, la giornata è stata molto intensa, anche emotivamente parlando, dunque ho molto da scrivere.
Certo, se smettessi di fare 'sti preamboli del cazzo magari snellirei tutta la struttura del post, ma non sto scrivendo un libro, dunque tutto questo nulla scritto ci sta bene.
Oggi siamo andati allo zoo di Ueno.
Volete la verità? Mi ha spezzato il cuore.
Sono stato più volte sul punto di piangere.
Non sono un'animalista che si scaglia contro gli zoo, anzi, sinceramente mi piacciono.
Ma quando gli animali sono trattati decentemente.
Il pane gigante era in una gabbietta di massimo 50 mq.
Faceva pena.
Dava le spalle agli umani, quasi come si vergognasse.
È sceso dalla struttura in cui stava solamente per nascondersi meglio.
Avevo la voce rotta e i lucciconi agli occhi: onestamente, volevo uscire.
Orsi bruni, neri e bianchi erano nelle stesse condizioni.
Il resto degli animali erano tenuti abbastanza bene.
Il problema fondamentale, secondo me, è la concezione che i giapponesi hanno dello zoo: un grande parco divertimenti con gli animali invece delle ruote panoramiche.
Mi hanno dato molto fastidio le orde di bimbi che urlavano di fronte agli animali, specie perché i genitori non riprendevano assolutamente i propri figli.
E cazzo, io un po' di rispetto a quelle povere bestie, tenute in gabbie da 2x2 metri glielo avrei portato.
Però ok, riconosco che magari, essendo abituato a un concetto diverso di zoo (sia lo zoo safari di Fasano che lo zoo di Londra offrono decisamente più spazio agli animali), potrei essere un po' di parte.
Poi siamo andati al museo (ok no, forse prima siamo andati al museo, ma vabe, è uguale) ed era molto bello: il problema è che il tipo di illuminazione da "museo" mi mette veramente molto sonno...
Una volta usciti, è iniziata l'odissea: abbiamo trovato un negozio di Yodobashi Camera a Ueno e siamo entrati immediatamente, giusto per vedere quello che avevano. Non vi dico la roba che abbiamo portato a casa.
Più che altro popin cookies per la sorella di Debora che qui non costano na Cippa e in Italia costano 30 all'euro l'uno.
Poi siamo saliti all'ultimo piano e ci è venuta voglia di fare una cosa molto folle.
Vi dico solo che, arrivato in cassa non mi bastavano i soldi.
Così, abbiamo pranzato (ore 16 e 30)e siamo corsi verso la nostra casa per prendere altri soldi per poi tornare in quel negozio.
Ore 18:30, dopo aver rimpinguato i portafogli torniamo al negozio e ci dicono che l'oggetto in questione era “sorudo autto”
letteralmente, gli ho risposto "sold out la tu mamma".
Così abbiamo girato vari negozi per trovare sto cazzo da qualche parte: niente, da per tutto, anche da Bic camera ad Akihabara era finito.
Poi mi giro e vedo il Trader.
Entro.
Vedo un giapponese in fila con il bugiardino della cosa che voglio.
Voleva comprarla anche lui.
Faccio L'Italiano ignorante e cerco di superare la fila: non volevo quella fosse l'ultima copia.
Il commesso mi dice di rispettare la fila.
Io facendo lo gnorri mi metto dietro a questo tizio nipponico e tra me e me mi dico: "se questa è l'ultima copia esco, l'accoppo e gliela inculo"
Fortunatamente, non era cosi: arriva il mio turno ed esco glorioso con la mia splendida copia in mano.
Per festeggiare, ci siamo concessi un paio di giocate a taiko no tatsujin.
La foto la lascio nei commenti come Extra.

Pokémon è un Magikarp con la Pietrastante.
Un open world stanco, DLC dimenticabili e un potenziale narrativo buttato via: Scarlatto e Violetto non sono i peggiori, ma non fanno nulla per migliorare la serie da Spada e Scudo.
Ricordo ancora il Day One di Pokémon Scarlatto e Violetto come si ricordano certi traumi infantili: gente furiosa, fan in lacrime per le texture massacrate, e orde di lagnosi pronti a lamentarsi delle palestre ridicole. E poi c’ero io, con stomaco d’amianto, abituato a digerire la peggio robaccia pur di restare aggiornato.
Voglio dire, le persone sembravano essersi dimenticati del disastro che erano Spada e Scudo al lancio. Un bug mascherato da gioco completo, rattoppato alla bell’e meglio con patch e DLC. Le Terre Selvagge? Una landa triste e laggante che sembrava una beta dimenticata in fondo a un hard disk.
Quando arrivò Scarlatto, confesso, ci speravo: un open world quasi decente, un minimo più vario rispetto alla piatta Galar. Paldea, per quanto oscena sul fronte texture e con un Poly Count degno della PS2, almeno aveva qualche montagna e un pizzico di verticalità. Certo, lo stile grafico è così anonimo che Leggende Arceus al confronto pare abbia l’art direction di Van Gogh, ma vabbè. Io volevo solo finirlo in fretta per buttarmi nel competitivo, che la trama, come da tradizione dai tempi di X e Y, mi faceva l’effetto di una cena di Natale con quei parenti che ti chiedono insistentemente quando intendi fare figli o sposarti.
Il problema? Mi ero scordato che il competitivo ora vive a stagioni. Ogni tot mesi, tutto cambia, e ottenere Pokémon legittimi e forti è una noia mortale. Dopo un paio di stagioni, ho mollato tutto, DLC compresi. Anche perché la mia povera Switch del 2017, acquistata in un negozio giapponese umido e dimenticato da Dio, dava segni di cedimento: Joy-Con che si disconnettono a caso, HDMI ballerino... Era arrivata l’ora del pensionamento.
Poi è arrivata Switch 2. E con lei, la curiosità: "Come gira Scarlatto adesso?" Risposta: meglio. Più fluido, meno drop, esperienza quasi decente. Tranne per quei Pokémon ninja che ti assaltano mentre cerchi solo di fuggire per respirare. Ma nel complesso, si gioca. E anche volentieri.
Paldea? Sempre meglio di Galar, anche se le città sembrano costruite in fretta e con poco amore. Però lo capisci subito: questo gioco l’hanno fatto correndo e sicuramente dietro c’è più di un problema di sviluppo.
Come è emerso dal Teraleak probabilmente gran parte del tempo necessario per creare un gioco è di pre produzione: bozzetti di mostri, nuove location, vibes generali del gioco… Cose che, nel brand più di successo al mondo, hanno senso: dopotutto la pagnotta si porta a casa col Merchandising, che i videogiochi per console oggi non sono così remunerativi come un tempo.
Ovviamente la preproduzione passa attraverso un rigorosissimo processo di approvazione che porta a noiosi meeting interni che succhiano tutto il tempo al team che quell’idea deve svilupparla e renderla concreta. Un bel casino, insomma.
Anche perché, se analizziamo l’avventura principale di Scarlatto e Violetto, è evidente che le idee c’erano.
La “ricerca del tesoro” aveva del potenziale narrativo mostruoso — bullismo, lutti, isolamento sociale, rivalità — ma tutto rimane lì, abbozzato. Buttato su uno script come la senape su un panino preso al volo.
Abbiamo:
Uno col Mabostiff morente e una madre assente.
Una hikkikomori che ha detto addio alla scuola e al contatto umano.
Una futura campionessa maniaca delle lotte e rivale designata.
Roba forte, no? Peccato che Game Freak abbia deciso di risolvere tutto con due dialoghi, un combattimento e via, alla prossima scenetta. I personaggi non evolvono, le storie non si approfondiscono, e tutto si chiude in un tenero lieto fine da fiaba low-budget.
Il bello è che qualcosa di interessante c’era davvero. L’Area Zero, per esempio, è l’unico pezzo di gioco interessante: i personaggi finalmente interagiscono tra loro in modo autentico, l’atmosfera si fa cupa e il climax è quasi emozionante. E lì ti viene l’illuminazione: ma perché diavolo non hanno fatto tutto il gioco così?
Poi mi sono sparato pure i DLC. Grave errore. Nordivia ha lo charme di un villaggio turistico fuori stagione. È piccola, povera di eventi, e con Koraidon che praticamente ti fa speedrunnare tutto cercando scorciatoie, perché non c’è niente di interessante da esplorare. Gli unici momenti interessanti sono quelli dedicati a Ogerpon e a un personaggio legato alla sua figura che diventerà il nostro invidioso rivale, con un cliffhanger sul finale che faceva ben sperare: la genesi del Joker dei Pokèmon? Peccato che, anche qui, tutto si risolva con l’epicità di un video dei Me contro Te.
Il secondo DLC? Ti aspetti un rivale impazzito impazzito, magari corrotto dal potere di Terapagos e uno scontro alla Nihilego & Samina. Invece ti becchi una battaglia anticlimatica e una predica sull’amicizia. Che due palle!

E così, ancora una volta, mi ritrovo a pensare che l’unico motivo per tornare a Pokémon è il competitivo. Perché il resto è sempre meno interessante. Il gioco lancia spunti forti, bullismo, malattia, morte, abbandono, ma li liquida con quattro righe e una pacca sulla spalla. Il tutto impacchettato con un bel fiocco color pastello, che ai bambini bisogna dare solo coccole.
Ma forse è proprio questo il problema. Pokémon aveva (ha?) il potenziale per crescere con il suo pubblico, per parlare ai piccoli e prepararli alle bastonate della vita — quelle vere, quelle che non si risolvono con una MT e un high five. E invece ci si accontenta della solita minestra.
Perché? Perché le app sono il nuovo Eldorado. Il successo di Pokémon GO, e oggi Pokémon Pocket, parla chiaro. Il futuro della saga principale sembra sempre più accessorio, un simpatico diversivo per nerd nostalgici mentre il vero business lo fanno le carte, i peluche, i panini a forma di Pikachu.
E io come un fesso, ci cadrò ogni volta, perché i Pokémon sono una parte importante della mia vita, che non sono disposto a sacrificare nonostante la qualità a dir poco ridicola degli ultimi loro titoli.
「時制の終焉」
“Addio, Tempi Verbali!”
L’inchiostro si era appena asciugato sulle rovine semplificate della Fortezza del Refuso, e già il cielo si contorceva.
Non era vento. Non era tempo.
Era coniugazione.
Un rombo scosse la punteggiatura. Le subordinate vacillarono. I tempi verbali… collassarono.
Nel cielo si aprì una crepa azzurro pallido, da cui si riversarono le Ombre Temporali:
“Se avessi potuto avere detto.”
“Stavo per andare a essere partito.”
“Fossi stato stato stato.”
Era il Congiuntivo Maledetto, una fusione illecita tra le intenzioni mancate e i futuri ipotetici mai risolti.
Typozard rise.
Il suo corpo era ormai fatto solo di sintassi disgregata.
Ogni sua zampa pestava una cronologia verbale diversa. Con l’artiglio destro ruggiva nel presente. Con quello sinistro rimpiangeva l’imperfetto. La coda? Condizionale passato, terza forma.
E Pietro…
Pietro Riparbelli era stato essere.
O forse stava per dover diventare.
Per un istante, anche lui tremò.
Le sue azioni iniziavano a sfaldarsi nel tempo narrativo: era lì, sarebbe potuto essere là, avrebbe dovuto aver colpito. Ma non colpì. Non ancora.
Pietro vacillò.
La sua Penna Rossa tremava. Ogni gesto che tentava era già un ricordo, oppure non era ancora successo.
I suoi pensieri si sbriciolavano sotto la pressione del condizionale composto.
Stava per esser stato perduto.
Ma lui era un correttore. Un antico.
E sapeva cosa fare.
Chinò la testa, posò la Penna a terra, e tracciò il Segno delle Tre Sillabe.
Poi, mormorò la formula:
— "Bozza originale, dammi ciò che era… e ciò che doveva essere."
Il testo tremò. Le righe si incurvarono. E da uno spazio tra i paragrafi… lei apparve.
Lexia, la creatura sintattica. Custode della Bozza.
Evocata solo da chi ha visto il Futuro Anteriore… e ne è sopravvissuto.
Si manifestò come un bagliore tra le lettere corrette.
La sua pelle era fatta di carta mai stampata, i suoi occhi, di font da manoscritto.
Parlava in didascalie, e fluttuava appena sopra la grammatica.
— “Mi hai evocata, Pietro. Cosa vuoi salvare?”
— “La coerenza… e il senso. Entrambi stanno morendo.”
Lexia annuì. Dal suo corpo emerse il Verbo Infinito. Una lama sottile, composta solo da ciò che può essere.
Insieme affrontarono l’Abominio dei Tempi.
Typozard ringhiò, piegando l’aria con la sua voce disallineata:
— “Il tempo è caos. L'autore è prigioniero della sua stessa timeline!”
Pietro lo fissò, con l’ombra di un sorriso.
— “No, Typozard. Il tempo… è punteggiatura.”
E alzò la Penna.
Lexia sollevò il Verbo.
Un tratto. Un taglio. Una correzione.
Il Futuro Anteriore esplose in un grido muto.
Il Condizionale cadde in ginocchio.
L’Imperfetto… accettò il suo destino.
Typozard urlò in tutte le coniugazioni possibili:
— “Avresti potuto lasciarmi… essere stato!”
— “Ma non lo farò.” rispose Pietro. “È già scritto.”
Con un ultimo colpo, ripristinò il Presente.
La linea temporale si ricucì. Il testo tornò a respirare.
E Lexia, sfumando piano tra i margini, lasciò solo una frase sospesa nell’aria:
— “Mi troverai… tra le bozze mai inviate.”
Pietro rimase solo, circondato da un silenzio che non era quiete.
Era un silenzio… troppo esplicito.
Perché qualcosa era cambiato.
Il mondo narrativo pareva ancora integro, eppure le frasi iniziavano a perdere profondità. Le emozioni affioravano… e subito svanivano. Ogni dialogo sembrava spiegarsi da solo, come se temesse di non essere capito.
E poi, Pietro lo sentì.
Il vuoto tra le righe.
Il sottotesto… era scomparso.
Typozard non era stato distrutto. Solo respinto.
E ora giocava l’ultima carta.
Nel prossimo episodio:
"Il Silenzio dei Sottotesti"Le parole ci sono. Ma non dicono più nulla.
Pietro dovrà combattere non ciò che è scritto… ma ciò che manca.
Perché la vera battaglia non è tra le righe.
È nelle righe.
Io e mia moglie siamo stati in Giappone per il viaggio di nozze nel 2018. Anche noi, di comune accordo, abbiamo deciso di acquistare la Switch con Mario, grazie al cambio favorevole. La cosa tremenda è che il Giappone ci è rimasto nel cuore e, di tanto in tanto, mi trovo a pensare a quando Jack della serie Lost gridava "DOBBIAMO TORNARE SULL'ISOLA!".