La mia vita è un gioco di Fares
Cronache di un amore nato spontaneamente e condiviso nel corso degli anni coi pad in mano.
Se dovessi raccontarvi come è nata la storia d’amore con la mia compagna, non saprei dove iniziare: la nostra relazione è nata in maniera piuttosto naturale e spontanea, non c’è stato un colpo di fulmine o il “provarci” di qualcuno.
Forse dovrei iniziare da quando ci siamo conosciuti per la prima volta, quando ci incontrammo grazie a degli amici in comune.
Lei aveva paura di me, io ero altissimo, con i capelli ricci e con uno sguardo spesso molto truce, ma soprattutto perché Debora è un pochino ipocondriaca e pensava che le macchie che avevo su tutto il corpo fossero l’effetto del cordyceps e che prima o poi mi sarei trasformato in uno zombie assetato di sangue; in realtà è soltanto vitiligine, ma quando si è giovani si tendono a ignorare certi tipi di malattie della pelle e si propende sempre a pensare al peggio.
Dopo questo non idilliaco primo incontro, abbiamo iniziato ad uscire in gruppo e molto rapidamente siamo diventati inseparabili.
All’epoca avevo sedici anni e gli ormoni viaggiavano all’impazzata: Debora era la mia migliore amica e i miei pensieri viaggiavano di fiore in fiore; ero preso da altre ragazze, ma non capivo in realtà che avevo quello che cercavo sotto il naso.
Mi ci è voluta un’estate intera per realizzare che stavo maturando dei sentimenti molto importanti per quella persona, così in una giornata di metà settembre, presi coraggio e la baciai.
Eravamo giovanissimi, andavamo ancora al liceo e quella che agli occhi di tutti poteva anche passare come infatuazione giovanile in realtà era molto di più.
Ho 32 anni ora e sto con la stessa persona da metà della mia esistenza: Debora è una persona insostituibile, uno dei - se non l’unico - pilastro della mia vita.
Abbiamo passato i nostri 16 anni insieme condividendo sempre i nostri hobby: la cosa bella è che siamo maturati insieme e abbiamo contaminato le nostre passioni.
Amiamo vedere serie TV insieme, così come ci appassioniamo contemporaneamente alle stesse cose, come è successo con la WWE un annetto fa.
Una vita vissuta in sincrono e in tandem per qualsiasi cosa: non posso far altro che essere contento e totalmente soddisfatto del rapporto che abbiamo instaurato nel corso degli anni.
Non voglio trasformare stOrto nella posta del cuore di Cioé, tranquilli: non ho Lillo Petrolo a curarmi gli speciali sui cucciolotti carinotti, né tantomeno posso competere con i fantastici stickers che vendevano insieme alla rivista, ma ho una voglia matta di parlarvi di videogiochi e di come, dal 2009, mi sembra di essere il protagonista di un gioco di Fares, creatore tra gli altri di It Takes Two e Split Fiction.

Potete prendere questo articolo anche come ispirazione per giochi da giocare con i vostri cari, non solo la vostra dolce metà, ma anche con i vostri figli o nipoti.
Nell’anno in cui ci siamo messi insieme, Il Wii e il Nintendo DS dominavano qualsiasi tipo di classifiche e tra i ragazzini era molto comune avere queste due console in giro per casa.
Io non avevo né l’una né l’altra; ero reduce di un Red Ring of Death dato da una Xbox 360 usata comprata al Blockbuster poco prima di trasferirmi di nuovo a Orvieto e amavo alla follia la mia piccola e rivoluzionaria PSP: come si fa a non amare una console che poteva riprodurre giochi, farti vedere film e ascoltare musica? Nemmeno l’Ipod all’epoca era così avveniristico.
Debora però, aveva ricevuto sia Wii che DS come regali di Natale nel corso degli anni in cui non stavamo ancora insieme: amava giocare con Wii Sports e Wii Fit e adora tutt’oggi la serie di Mario e Luigi, ma non potevamo sapere che una modifica della sua Nintendo Wii avrebbe cambiato per sempre il nostro rapporto: la mia cittadina è molto piccola e all’epoca non è che esistevano poi molte alternative all’acquisto in negozio. Spesso e volentieri non si trovavano i titoli più ricercati e modificare una console era una piattaforma d’accesso verso videogiochi che potevano essere inaccessibili: e comunque, anche qualora lo fossero, a 16 anni non avevamo le finanze per poterci permettere tutti i videogiochi che ci piacevano.

Il primo titolo che abbiamo giocato insieme è stato Kirby Adventure per Wii: a rigiocarlo oggi non è poi così interessante, ma ci ha permesso di passare interi pomeriggi insieme alla pallina rosa più famosa del mondo e ai suoi colorati e fantastici amici.
Questa esperienza ci ha portato, ogni volta che il gioco ce ne dava la possibilità, ad affrontare i videogiochi in coop locale.
Un altro titolo che abbiamo amato alla follia è stato Rayman Origins: colorato, con un level design divertente e un cast di personaggi fuori di testa che ci hanno fatto sorridere più di una volta. Ma quello che ci è piaciuto di più e che probabilmente ha del rivoluzionario era il sistema di checkpoint che faceva sì che non si arrivasse mai al Game Over, ma si dovesse rifare solo una piccola porzione di livello; un dettaglio che sembra piccolo e che non possa aumentare la qualità di un gioco stratosferico, ma questa feature è spettacolare perché non frustra chi magari è meno bravo a giocare, un qualcosa di apprezzabilissimo e che non finisce a far litigare i due giocatori perché qualcuno fa da zavorra all’altro.

Non sono sicuro al 100% che questo sia il primo gioco ad avere un approccio simile alla difficoltà del gioco, probabilmente Ubisoft aveva già pionierizzato la cosa con il bellissimo Prince of Persia in cel shading, ma comunque era la prima volta che lo vedevo in un platform coop dove magari ci sarebbero potute essere situazioni molto caotiche.
In linea di massima, se un videogioco aveva il multiplayer in locale, lo facevamo nostro in qualche modo e lo giocavamo.
Abbiamo apprezzato moltissimo Nintendo dell’epoca Wii e WiiU per questo: quasi ogni loro gioco “main” aveva la possibilità di farci giocare insieme, e ci siamo affezionati molto ai brand della software house kyotese anche per questo: il loro intento era far giocare le famiglie insieme, sullo stesso divano e noi provavamo un divertimento matto a giocare con New Super Mario Bros. U (titolo ingiustamente sottovalutato) e a Super Smash Bros. U

Il rapporto quasi simbiotico che abbiamo sviluppato in 16 anni, ci porta costantemente ad affrontare le sfide in tandem, sia della vita vera che di quella videoludica e non potevamo esimerci dal giocare It Takes Two: gioco che Debora vorrebbe finire, ma che io ho sempre avuto problemi ad affrontare.
Chiamatemi melenso, idiota, stupido e persona molto influenzabile, ma i videogiochi mi entrano sotto pelle: mettere su un gioco in cui i due protagonisti si stanno per separare e un libro li rimpicciolisce per cercare di salvare il loro rapporto mi fa paura.
Mi rattrista perché non vorrei mai arrivare al punto che mi serva un aiuto per apprezzare Debora, sono sinceramente spaventato della vita senza di lei e non riesco ad approcciarmi a giochi che paventino anche un minimo la possibilità che ci sia qualcosa di non risolto nelle relazioni di coppia.
Lasciarsi è una cosa normale per la maggior parte delle persone, succede che l’amore si affievolisca e lasci spazio ad altro, accade a un sacco di persone, anche intorno a me: io però non riesco a comprendere quale sia lo step che ti faccia lasciare una persona che ami, anche perché non l’ho mai provato, ma il solo pensiero mi lascia nello sconforto.

It Takes Two mi mette l’ansia, perché non vorrei vivere mai situazioni del genere: non saprei nemmeno come potrei mai arrivare a eventi simili a quelli che scaturiscono il gioco, ma il solo pensiero mi mette seriamente a disagio.
Prima o poi, ho promesso a Debora che continueremo quest’avventura, ma al momento stiamo adorando ogni singolo momento passato a giocare a Split/Fiction, che ha l’indubbio merito di metterti al centro di un plot che fa da pretesto per scatenare la fantasia di Fares e soci per quanto riguarda le idee di gameplay: in un’oretta scarsa il gioco ti appioppa una quantità sbalorditiva di differenti approcci al platform, che citano anche abbastanza spudoratamente classici del passato.
Il che non è un male, anzi ho sorriso più di una volta anche per come la cosa si sposa con il plot che vede due autrici in cerca di pubblicazione rinchiuse in una macchina che dovrebbe succhiare le loro idee per fornirle a una casa editrice senza scrupoli.
Una delle due ragazze si rifiuta a entrare, e il capo progetto fa un arrosto, spingendola dentro la postazione “succhiapensieri” già occupata da un’altra ragazza, creando un errore di sistema che rischia di compromettere la loro vita e il corretto funzionamento della macchina.
Le due dovranno andare alla ricerca dei glitch attraverso i mondi che hanno creato per le proprie storie: un espediente che ricorda un po’ l’entrare nella mente di Psychonauts, soltanto declinato in maniera diversa e sicuramente più semplicistica, ma che funziona proprio perché lascia chiacchierare molto il sistema di gioco che entusiasma perché le regole di Game Design cambiano molto rapidamente e ci troviamo sempre qualcosa di nuovo per le mani: una struttura simile a quella di It Takes Two, ma decisamente più frenetica e riuscita.

Nel precedente gioco di Fares, specialmente se approcciato con un giocatore non troppo avvezzo ai giochi in tre dimensioni, spesso si avvertiva una certa lentezza nell’incedere dovuta al fatto che la persona con più esperienza spesso doveva attendere diversi minuti (e tentativi) della metà meno brava coi videogiochi.
In questo caso è impossibile percepire come una zavorra il proprio compagno di gioco non solo per la rapidità con il quale le varie formule di gameplay si susseguono, ma perché spesso e volentieri i compiti che i due personaggi devono assolvere per avanzare nei livelli sono completamente differenti: se un personaggio guida una macchina volante, l’altro dovrà sparare affinché gli ostacoli non sbarrino la strada al velivolo.
Non ho ancora finito Split Fiction, e sinceramente non mi interessa aspettare la fine del gioco per parlarvene, perché per me è una gran bella esperienza che rende il triplo se affrontata condividendo il pad e il divano con qualcuno di caro.
Un grazie gigante a Pietro Riparbelli, che come sempre viene qua, legge tutto e mi corregge tutti i miei errori grammaticali.
Ha l’incredibile forza di leggersi i miei pipponi imperfetti un paio di giorni prima di voi. È grazie a lui se tutto scorre fluido e suona bene.